L’estetica della macchina
“Audace, aerea, […] dinamica, violenta, interventista”: così è descritta la pittura futurista italiana nel Manifesto del colore (ottobre 1918), redatto da Giacomo Balla (Torino, 1871 – Roma, 1958) in occasione della sua mostra romana alla Casa d’Arte Bragaglia. La nuova collettiva di Palazzo Cavour, in linea con la tendenza che di questi tempi ha interessato molte sedi espositive, da Roma a Bologna, è appunto dedicata al futurismo made in Italy.
Intorno alla metà degli anni ’10, con il sostanziale contributo di Balla e di Fortunato Depero (Fondo, Trento, 1892 – Rovereto, Trento, 1960), il movimento si allontana sempre più dal simbolismo boccioniano, nonché dai dettami compositivi imposti dal divisionismo. In primis, ciò che gli artisti bramano è la realizzazione di un mondo del tutto inedito, raccontato attraverso la precisione geometrica e popolato da entità meccaniche.
L’allestimento è introdotto da due sezioni illustranti questa svolta, ovvero i temi alla base di Ricostruzione futurista dell’universo del 1915. Nel noto documento, un “proclama rivoluzionario e anticipatore” (Ada Masoero, curatrice) che teorizza per la prima volta sulla linea astratto-meccanica, gli intenti di Balla e Depero appaiono del tutto chiari. “Daremo scheletro e carne all’invisibile”, dichiarano entusiasti, e più avanti: “troveremo degli equivalenti astratti di tutte le forme […], poi li combineremo insieme […] per formare dei complessi plastici che metteremo in moto. […] Giungeremo così a costruire l’animale metallico”.
Ecco dunque materializzarsi paesaggi artificiali fatti di monoliti, coni e spirali. Persino le figure umane mutano “in un insieme di forme falcate, che alludono all’energia e al dinamismo” (Masoero).
Il manifesto, ancora, si propone di estendere i principi dell’estetica futurista ad ogni aspetto della vita umana, dalla poesia all’architettura, influendo anche sulle cosiddette arti minori: grafica, tipografia, arredamento, scenografia, moda. Se Balla, difatti, trasforma fiori in rigorosi assemblaggi di geometrie in legno (Fiore futurista verde, azzurro, blu, 1920 ca) per poi addobbarvi la sua abitazione, la celebre Casa d’Arte di Depero a Rovereto confeziona colorati arazzi in panno e bizzarri panciotti (Gilet appartenuto a F.T. Marinetti, 1924).
Tra gli architetti ricordati, tra cui Mario Chiattone e Virgilio Marchi, si distingue Antonio Sant’Elia (Como, 1888 – Monte Zebio sul Carso, 1916). Ne L’architettura futurista (1914), egli inneggia “al gusto del leggero, del pratico […] e del veloce” e brama una città “straordinariamente brutta nella sua meccanica semplicità”. Il concetto di estetica della macchina, dal quale è mutuato anche il titolo di questa rassegna, è perfettamente riassunto da un altro brano del suddetto manifesto: “come gli antichi trassero l’ispirazione dell’arte dagli elementi della natura, noi […] dobbiamo trovare quell’ispirazione negli elementi del nuovissimo mondo meccanico che abbiamo creato”.
Dopo la I Guerra Mondiale, il contributo dei futuristi torinesi si rivela di notevole importanza per l’evolversi della corrente. A Palazzo Cavour, due sale raccolgono le tele di Farfa, Pippo Oriani, Fillia, Nicolaj Diulgheroff, le sculture in bronzo di Mino Rosso (Architettura femminile, 1928), un paio di lavori di Luigi Spazzapan (I serpenti, 1923, da poco rientrato dall’esposizione di Caraglio) ed alcune fotografie di Carlo Mollino (Torino, 1905 – 1973).
Attraverso un nutrito nucleo di opere di Enrico Prampolini (Modena, 1894 – Roma, 1956), si rimanda all’idealismo cosmico e al polimaterismo, quest’ultimo ben rappresentato da pezzi quali Ritratto di Marinetti (1924). Padre fondatore dell’intero movimento, lo stesso Filippo Tommaso è presente con Tavola tattile Paris-Soudan (1921), capolavoro citato a scopo dimostrativo nella sua dichiarazione sul tattilismo.
Chiude la mostra Incendio Città (1925, olio su tela) di Gerardo Dottori (Perugia, 1884 – 1977), – protagonista anche di una sala monografica dedicata all’aeropittura –, una grande veduta a volo d’uccello in cui i palazzi diventano prismi di luce e le fiamme cunei staglianti. Direttamente da Marinetti (Alessandria d’Egitto, 1876 – Bellagio, Como 1944) un’interpretazione di questo dipinto affascinante e visionario: “nell’incendio della città medievale Dottori accanitamente impone un suo desiderio di astrazione e di incubo ossessionante”.
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